Tutte le foto pubblicate in questo blog sono di Luisa Siddi, tranne diversa indicazione in didascalia

lunedì 12 agosto 2013

L'impossibile reciprocità - III e ultima parte


Ripartiamo dal breve saggio di John Berger “Perché guardare gli animali?”
Siamo avidi consumatori di foto di animali. Ora, seppure questo scritto di Berger non affronti esplicitamente l'atto fotografico, ci offre una serie di spunti interessanti. Perché guardare e addirittura fotografare gli animali? Berger se lo chiede perché sostiene che, tra noi e gli animali, esiste uno stretto abisso di non comprensione. C'è una profonda scissione tra l'essere umano e il mondo naturale. Il nostro porci non solo al vertice della catena alimentare, ma l'avida predazione e distruzione di ogni risorsa del pianeta, non ci consola di un'atavica nostalgia. “Con le loro vite parallele, gli animali offrono all'essere umano una compagnia diversa da quella che può essergli offerta da un altro essere umano. Diversa, perché è una compagnia offerta alla solitudine dell'uomo come specie”.
Così è sempre stato? Sappiamo di no. Berger si appoggia all'antropologia di Levi-Strauss, quando cita gli indiani delle Hawaii. “Noi sappiamo che cosa fanno gli animali e quali sono i bisogni del castoro, dell'orso, del salmone e delle altre creature, perché un tempo i nostri uomini si sposavano con loro e acquistavano questo sapere dalle loro mogli animali”.


Probabilmente la prima metafora fu animale, perché la relazione essere umano/animale era metaforica. E probabilmente, se un giorno gli animali iniziassero a parlare, comincerebbero da un linguaggio metaforico. Sarebbe interessante scoprire se gli elementi delle loro metafore includerebbero la nostra presenza e in che modo. Ma qui introduciamo una tentazione di reciprocità, da cui forzatamente ci asteniamo ( è suggestiva, eh?).
Il primo soggetto della pittura fu animale e probabilmente fu dipinto con sangue animale. Di quale senso era carico? Non rispondiamo, ma chiediamoci di quale senso è carica oggi la fotografia degli animali.
PET.
Questa è la nostra miserabile risposta alla nostalgia atavica.
“Ciò che distingueva l'uomo dagli animali – dice Berger – era la relazione che esisteva tra loro”.
Oggi la relazione che intessiamo con gli animali è concentrata a cercare elementi di similitudine. Altrove, con le nostre “necessità” siamo causa di estinzione animale, ma nelle città dei paesi più ricchi, gli animali domestici non sono mai stati così numerosi. Creature nate e cresciute in funzione del nostro modo di vivere. Strumentali, funzionali a consolarci della nostra solitudine di specie che ha perso quasi ogni contatto con la potente simbologia del mondo naturale.
Il nostro rapporto diventa empatico, laddove era metaforico.
Cosa c'entra tutto questo con la fotografia?
La fotografia è un linguaggio che deve possedere una ricchezza tale da poter arrivare alla povertà minimale della sintesi. E gli animali, in questo discorso, volevano essere di nuovo metafora per introdurci al preludio della fine di questa conversazione. Il titolo di questa chiacchierata si palesa solo alla fine.
Che reciprocità esiste nel nostro sguardo sugli animali? Perché e come li fotografiamo?
Esiste una macchinetta fotografica, stravenduta, che si appende al collare del nostro animale d'affezione e s'imposta per scattare delle foto a intervalli di tempo predeterminati. Ci offre l'illusione di essere fotografati dai nostri animali, l'illusione di reciprocità. Ovviamente manca l'atto volontario. “Fotografare significa scegliere e dare importanza” diceva Susan Sontag. Se l'animale potesse scegliere cosa fotografare, ve lo immaginate a scattare quando dormiamo? O quando sbadigliamo? Penso che i miei gatti mi fotograferebbero solo nell'atto di versar loro le crocchette, non sopravvalutiamoci.
Foto: Jo Spence
Ora, perdonate la crudezza della similitudine, ma forzo in chiusura, perché non mettiamo una di queste macchinette sul corpo morente che stiamo fotografando in Siria? Almeno potremmo vederci in tutta la nostra avidità di dolore altrui. La Siria non riguarda nessuno di noi? Allora mettiamo questa macchinetta sui senzatetto che fotografiamo nelle nostre città, sui protagonisti di quella che chiamiamo “marginalità”, sui corpi nudi che fotografiamo. E immaginiamo, per un attimo, come saremmo rappresentati.

Cos'è la fotografia?
E' una ricerca estetica invece di un'istanza etica? O viceversa...
Né l'una né l'altra. E' una bugia quando pretende oggettività. Perché la fotografia – e lo è strumentalmente – è un punto di vista. Fermato nel tempo.

  1. Assumersi la consapevolezza e la responsabilità di congelare qualcuno nella posa che abbiamo scelto.
  2. Pensare che potrebbe capitare anche a noi...
  3. Nutrirsi di sapere, perché le nostre foto siano – come diceva Stieglitz - “colte, autorevoli, trascendentali”.

Non avete più voglia di fotografare? FATE BENE.
Ma, se proprio voleste, iniziate a raccontare il vostro piccolo punto di vista. A partire da sé. Questo potrebbe essere il futuro della fotografia che ci siamo lasciati alle spalle. Nei giorni decadenti dello stereotipo, di bellezza e morte, amore e sangue, che noia...sembrano proprio tempi difficili. E invece no. Sono, a discapito delle apparenze i tempi migliori. Quando riecheggia lo stereotipo ovunque è il momento delle avanguardie. Partite dalla vostra storia, dalla vostra vita, dalle vostre opinioni. Certo bisogna avere una punto di vista per poterlo rappresentare. E, ancora di più il coraggio di rivendicarlo.

Bello e buono, diceva l'ideale etico - estetico della cultura ellenica. Sono ancora convinta che una foto bella sia buona e viceversa.