Enrico Pinna mi ha chiesto di partecipare a un incontro sull’ecologia dell’immagine. L’idea mi piace e la decisione inizia a farmi
giocare con ricordi di letture, l’esperienza dell’autorappresentazione e il
diario di bordo di Fuoritema.
Dalla Sontag e dal suo saggio “Sulla fotografia”, mi ritrovo
tra le mani “Come vive l’altra metà”, lavoro accuratissimo del danese
Riis, realizzato a New York al
crepuscolo dell’Ottocento. Opera dettagliata, ricca di immagini, dati
statistici, piante architettoniche. Ma chi era l’altra metà per Riis? Erano gli immigrati in America, di qualunque
nazionalità, che vivevano accatastati in ospizi della polizia, in
casamenti senza aerazione e senza luce,
nelle soffitte, accampati sui tetti o nascosti nelle cantine. Riis documenta
tutto e si dice che il suo reportage abbia fatto da propulsore per interventi
di risanamento degli edifici o di sgombero da quelli malsani. Interventi non
sempre apprezzati dai diretti interessati, perché mai decisi insieme a loro e perché
spesso l’alternativa era una locanda squallida quanto i luoghi da cui
provenivano. E questa non è solo storia contemporanea, ma cronaca odierna di
“gestione delle emergenze”. Quello che mi colpisce è che anche Riis, pochi anni
prima, era un immigrato che viveva negli stessi luoghi. Il suo sarebbe potuto essere quasi un lavoro di autorappresentazione.
Ma il titolo scelto, che la Sontag definisce “innocentemente esplicito”, toglie
ogni dubbio . Riis, dopo i primi anni di patimenti, trovò impiego come cronista
e passò dall’altra parte del campo. “Come vive l’altra metà” è un’ammissione di
appartenenza, di scelta di punto di
vista che impone un’alterità. E non c’è niente di male a dire da che parte si
sta, anzi, i guai iniziano proprio se non lo si dice.
E di nuovo sento l’eco della Sontag, quando parla della
fotografia “strumento di
quell’atteggiamento essenzialmente borghese, insieme missionario e
soltanto tollerante, curioso e indifferente, che va sotto il nome di umanesimo”.
Non chiedete alla mia testa come da qui sia finita a Sartre, ma è stata
un’acrobazia sensata. E magari ne scriverò un’altra volta.
Di tutto, questo, in ogni caso, non parlerò venerdì.