Tutte le foto pubblicate in questo blog sono di Luisa Siddi, tranne diversa indicazione in didascalia

martedì 4 settembre 2012

L'altra metà



Enrico Pinna mi ha chiesto di partecipare a un incontro sull’ecologia dell’immagine. L’idea mi piace e la decisione inizia a farmi giocare con ricordi di letture, l’esperienza dell’autorappresentazione e il diario di bordo di Fuoritema.


Dalla Sontag e dal suo saggio “Sulla fotografia”, mi ritrovo tra le mani “Come vive l’altra metà”, lavoro accuratissimo del danese Riis,  realizzato a New York al crepuscolo dell’Ottocento. Opera dettagliata, ricca di immagini, dati statistici, piante architettoniche. Ma chi era l’altra metà per Riis? Erano gli immigrati in America, di qualunque nazionalità, che vivevano accatastati in ospizi della polizia, in casamenti  senza aerazione e senza luce, nelle soffitte, accampati sui tetti o nascosti nelle cantine. Riis documenta tutto e si dice che il suo reportage abbia fatto da propulsore per interventi di risanamento degli edifici o di sgombero da quelli malsani. Interventi non sempre apprezzati dai diretti interessati, perché mai decisi insieme a loro e perché spesso l’alternativa era una locanda squallida quanto i luoghi da cui provenivano. E questa non è solo storia contemporanea, ma cronaca odierna di “gestione delle emergenze”. Quello che mi colpisce è che anche Riis, pochi anni prima, era un immigrato che viveva negli stessi luoghi. Il suo sarebbe potuto  essere quasi un lavoro di autorappresentazione. Ma il titolo scelto, che la Sontag definisce “innocentemente esplicito”, toglie ogni dubbio . Riis, dopo i primi anni di patimenti, trovò impiego come cronista e passò dall’altra parte del campo. “Come vive l’altra metà” è un’ammissione di appartenenza, di scelta di  punto di vista che impone un’alterità. E non c’è niente di male a dire da che parte si sta, anzi, i guai iniziano proprio se non lo si dice.


E di nuovo sento l’eco della Sontag, quando parla della fotografia “strumento di  quell’atteggiamento essenzialmente borghese, insieme missionario e soltanto tollerante, curioso e indifferente, che va sotto il nome di umanesimo”. Non chiedete alla mia testa come da qui sia finita a Sartre, ma è stata un’acrobazia sensata. E magari ne scriverò un’altra volta.


Di tutto, questo, in ogni caso, non parlerò venerdì.